Lo Sbarco in Sicilia e la memoria

settembre 1st, 2008 - No Responses

Siamo testimoni di ciò che ci circonda ma viviamo lontani da ciò che è accaduto. Solo la memoria personale e collettiva scandisce il tempo di ciò che è stato e genera visioni intorno ai luoghi. In un rapporto perpetuo tra passato e presente, tra natura ed architettura, tra semplici vite umane e macchinosi progetti planetari. Una memoria diffusa in tante storie spente che volgono al futuro e che, in fondo, appartengono all’unica grande Storia dell’intera umanità.

Per tutti coloro i quali volessero intraprendere un piccolo viaggio intorno ad alcuni luoghi dello Sbarco in Sicilia riportiamo un appassionante passo di Tullio Marcon tratto dal libro Assalto a tre ponti.

A chi voglia approfondire ed effettuare un tour guidato maggiormente esteso consigliamo di visitare la nostra pagina Info.

“Il voler rintracciare sui luoghi, a distanza ormai di cinquant’anni, qualche memoria di ciò che v’era accaduto in quelle giornate infuocate, è spesso impresa ardua, che molto deve richiedere all’immaginazione per calarsi nelle situazioni di allora; poiché, inevitabilmente, tanti di quei luoghi si sono trasformati, com’è del resto nell’ordine naturale delle cose.
Partire, per esempio, dal seno di Fontane Bianche – la spiaggia «George» di «Husky» ed ora rinomato lido balneare – per ricalcare le orme degli scozzesi nella loro marcia su Cassibile, è un tentativo sterile poiché, là dove c’era solo la campagna degradante verso il mare, v’è adesso un altro mare – fatto di case, questo – che si spinge fin sulla spiaggia a lambire quello vero.
E lo stesso accade, seppur a tratti, più a sud, ov’erano «How» e le due «Jig». Ivi, le testimonianze si offrono solo a chi sappia cercarle in fondo al mare, visto che le acque antistanti Capo Negro custodiscono, a non troppa distanza dalla riva, gli scafi arrugginiti di tre navi da sbarco. Anche il Pickering giace ancora sul fondo, un miglio a levante di Marina d’Avola; addirittura, per molti anni ne emergevano le alberature, poi asportate per rendere nuovamente sicure quelle acque.
Tornando a terra, ed indovinando con un po’ di fortuna l’imbocco di una delle tante stradelle che tra Fontane Bianche ed Ognina portano sulla spiaggia, è possibile identificare Scoglio Imbiancato, ov’era sbarcato il 3° Commando; così come, risalendo ancora per un paio di km verso l’interno, si arriva a Torre Cuba, che di quel Commando era stato uno degli obiettivi e che adesso è un vivaio di piante.
Da Capo Ognina, la cui Torre è ormai un rudere, lo specchio acqueo che, gremito di bastimenti per un evento tanto eccezionale quanto breve, si chiamò «Acid North», mantiene integra la propria bellezza, coronato com’è, a nord, dalla Costa bianca del Plemmirio; questa, biancheggia adesso soprattutto per le tante case che sono sorte lì. Tuttavia, percorrendo la strada che da Milocca conduce a Capo Murro di Porco, esse vanno via via rarefacendosi finché, giunti presso il Capo, può ancora vedersi dominare sul calcare traforato come un merletto, il cocuzzolo da cui la «Lamba Doria» guatava sul Golfo di Noto. Il tempo, completando l’opera della dinamite brillata dall’S.R.S., ha ridotto le piazzole a ruderi, ma non così tanto da non consentire che, complici il  profumo delle erbe aromatiche e l’eterno fruscio del vento marino, la memoria possa riandare al ’43.
Il Ponte Grande, quello che era stata la preda di «Ladbroke», non c’è più; ciò che la guerra non era riuscita a fare, lo fece l’alluvione del 1951, gonfiando l’Anapo in tal misura da farglielo travolgere. Ne sono rimaste le sole spalle, accanto alle quali si appoggia il nuovo manufatto; ma il nome è rimasto quello di allora, al pari dei giunchi e dei papiri che, lungo le sponde del mitico fiume, servirono come ultimo riparo agli aliantisti, prima di dover soccombere.
Volgendo lo sguardo verso terra, è facile comprendere quanto azzardati dovessero essere stati quegli atterraggi, compiuti al buio tra ulivi, mandorli e muri a secco. Molti di quanti vi morirono, spesso sfracellati, riposano per sempre non lontani dal loro ultimo obiettivo. A soli 3 km a nord del Ponte Grande, infatti, vi è sulla Siracusa-Floridia il primo cimitero britannico della Sicilia; e lì, su molte delle 1.049 erme in pietra bianca erette sulle sepolture, è facile imbattersi negli stemmi dei battaglioni Airborne o del Glider Pilot Rgt., accanto a quelli dei Seaforth o del K.O.Y.L.I.
Da Siracusa a Priolo, la statale 114, seppur riammodernata, segue il tracciato d’origine. Dal balcone naturale di Scala Greca, lo sguardo può sempre spaziare dal Golfo di Augusta all’altipiano dei Climiti, che s’innalza brusco a separare le due pianure di Priolo e di Floridia. È facile comprendere, a quella vista, quanto quei monti avessero pesato nell’impedire alla colonna Ronco ed al gruppo Schmalz di congiungersi per tentare la riconquista di Siracusa.
Tra Priolo ed Augusta, la marea industriale montata dagli anni ’50 in poi, ha reso la fascia costiera irriconoscibile rispetto al ’43, tanto da rendere oggettivamente difficile individuare i luoghi ove il II/76° era stato «più valoroso che saggio ad attaccare» la 17ª brig. La vecchia strada per Augusta, quella che servì per prenderla da terra, passa ancora sul fiume Mulinello, ma il ponte che era stato l’obiettivo mancato di «Glutton» non c’è più, travolto anch’esso – come quello sull’Anapo – dall’alluvione del 1951. Ve n’è accanto uno nuovo.
Se però da Priolo si sceglie di proseguire verso nord servendosi della vecchia «114», ora declassata a strada provinciale N. 95, allora i luoghi attraversati vengono ancora in soccorso della memoria. Le enormi grotte artificiali che, scavate accanto al cimitero di Melilli, ospitarono la sede di guerra della piazzaforte, sono infatti rimaste quali erano nel ’43, anche se adesso l’unica sensazione che vi si prova è quella offerta dalle latomie siracusane. Dopo un km, il bivio con la vecchia «193», anch’essa declassata a strada provinciale, è sempre guardato dal grosso fortino addossato alla roccia così intimamente, da far confondere il calcestruzzo con il calcare. E poi, man mano che si prosegue per Villasmundo, Carlentini e Lentini, altri fortini scandiscono il percorso, taluni ancora integri, altri smantellati ed aggrediti dai fichi d’India. Essi, insieme ai frequenti tornanti, spiegano tuttora più che bene, la cautela con cui la 50ª div. era stata indotta ad avanzare.
Il secondo dei tre ponti assaltati, quello dei Malati, è l’unico ad essere sopravvissuto agli effetti del tempo, come testimoniano le due targhe di Montgomery. Dall’altro – recentissimo – che supera parallelamente il S. Leonardo poco più a sud, si afferra con immediatezza la situazione che aveva costretto il 3° Commando a ripiegare verso le colline sulla destra; ogni cosa è ancora al suo posto, i fortini e la stradella che dopo 7 km porta al mare. I commandos l’avevano seguita solo per il tratto che l’avvicinava alla ferrovia, ma adesso si può fare a ritroso tutta la loro strada fino ad Agnone senza bisogno – come invece allora – di guadare il S. Leonardo e districarsi tra rocce e cespugli selvatici. Un altro balcone naturale, quello che la nuova «114» offre a che voglia fermarsi sul costone di Agnone, consente di osservare la spiaggia su cui era avvenuto lo sbarco, anche se adesso, da lì fino alla foce del Simeto, una cintura di caseggiati stringe da vicino l’arenile.
Tornando al Ponte dei Malati e proseguendo verso la Piana di Catania, l’arrivo a bivio Jazzotto evoca nuovi ricordi. Seppur le cave di arenaria aperte nel dopoguerra sul fianco della collina di S. Demetrio non consentano più di ritrovare i resti del campo trincerato o delle batterie – i tre «Johnny» di «Marston» – lo sguardo dalla collina verso ovest non trova ostacoli nell’individuare, ora come allora, l’agrumeto infittito dai cipressi in cui s’erano appoggiati i mitraglieri tedeschi e, tra esso ed il Gornalunga, la pianura integra, su cui s’erano posati gli alianti e paracadutisti britannici. Questo fu il luogo del primo scontro tra «Diavoli» verdi e rossi.
Ed infine, Primosole.
Sia che vi si arrivi dalla vecchia «114» che dalla nuova, c’è sempre un unico passaggio sul Simeto, ed è quello sul ponte. Ma la vecchia e non bella struttura in ferro del tempo di guerra, ha dovuto lasciare il posto, da vari decenni, ad un più anonimo seppur funzionale manufatto in cemento, che corre a qualche decina di metri a levante della prima; di questa, affiorano i basamenti delle pile, ma solo quando il Simeto è in magra. L’ansa del fiume verso l’entroterra, segue sempre il guado che era servito alla «Durham» per guadagnare la sponda nord; l’altra invece, verso il mare, ove montavano la guardia i mitraglieri italiani, non appartiene più al Simeto bensì al Fosso Buttaceto, da quando il corso finale del fiume è stato rettificato.
Un nuovo insediamento, non vasto, ha preso il posto della masseria Di Stefano ed il vigneto è parimenti scomparso. Per il resto, la creazione dell’«oasi del Simeto» ha consentito di mantenere integra la natura così com’era nel ’43, salvo a farvi scomparire la malaria che, tra gli inglesi, aveva messo fuori combattimento più uomini di quanto non avesse fatto il nemico.
Presso il ponte – ha scritto un reduce – «si ha la sensazione di una pace, di una solitudine immensa». E basta superarlo di poco, perché subito sulla sinistra, all’imbocco di un sifone, ci si imbatta nel cippo con la lapide a ricordo dei morti della «Durham». Più avanti sulla destra, al km 109 del rettifilo, un altro cippo ricorda – anch’esso in lingua inglese – il sacrificio del 10° Berkshire. Ed infine, dopo altri 3 km, il Fosso Buttaceto, ora allargato e cementato per meglio smaltire la piene, sta a segnare ancora il luogo dell’ultimo macello della Piana. Come già a Siracusa, anche qui molte di quelle vittime riposano non lontano dai siti che le avevano viste cadere; il secondo cimitero britannico [CWGC] in Sicilia, infatti, sorge non lontano, a Bicocca, e tra i suoi 2.139 Caduti, una nutrita schiera appartiene alla «poor bloody infantry» della 50ª div. Quando nella torrida estate i campi tutt’intorno ad esso diventano gialli per la restuccia rinsecchita, il suo prato erboso, di un verde irreale, fa rammentare le parole del poeta Rupert Brooke: «un angolo in terra straniera, che sarà per sempre Inghilterra».
In terra straniera, targhe, lapidi e cippi – oltre ai cimiteri – restano a segnare il passaggio dei vincitori. I perdenti, invece, si lasciano dietro solo i loro morti.
Sicché i tedeschi, che pure vi avrebbero avuto diritto, per come s’erano battuti a prezzo di tante vite, non sono presenti a Primosole, anche se è tuttora facile individuarne le posizioni tenute così accanitamente. I panzergrenadieren ed i «Diavoli verdi» Caduti sulla via di Catania, riposano in collina, a Motta S. Anastasia, tra i 4.561 commilitoni morti in Sicilia anche prima dell’invasione e tutti riuniti nell’unico, austero ossario [Volksbund] ai piedi dell’Etna.
Che cosa, infine, ne è stato dei poveri Caduti italiani?
In un paese ove ormai proliferano sui cigli delle strade le croci a ricordo degli incidenti stradali, solo un benemerito s’è adoperato per porne almeno una al km 101 della statale 124, per ricordare il sacrificio della colonna Ronco alle spalle di Solarino.
Ma forse, anche questa è una conseguenza remota della guerra che fu perduta e condannata, coinvolgendone chi – comunque – vi aveva fatto il proprio dovere.
Tuttavia, almeno fino agli anni ’60, quei Caduti, al pari di tutti gli altri in Sicilia ed altrove, erano stati sepolti nei cimiteri delle città e dei paesi più vicini. E siccome lì si sapeva come, dove e perché erano morti, un fiore sulle Loro tombe non mancava mai.
Poi, quando la fame di spazio per esigenze civili cominciò a farsi sentire anche nei cimiteri, quelle salme furono esumate e traslate nei paesi d’origine o nel sacrario di Cristo Re a Messina, ove – inevitabilmente – i Loro nomi si perdono, ormai, tra i tanti altri che vi sono incisi nel marmo.
Mentre qui, allora, Essi avevano continuato ad essere vivi nel ricordo della gente, anche se riposavano «lontani dalle loro mamme».”

da Assalto a tre ponti di Tullio Marcon, Ermanno Albertelli Editore